mercoledì 21 dicembre 2011

SE ANCHE L’EUROPA DICE “S.E.” – Social entrepreneurship

Salve a tutti!! Vorrei iniziare a collaborare a questo blog con una riflessione sull’imprenditoria sociale. Così come molti indizi sono già stati anticipati nel thread precedente, questa riflessione è necessaria per mettere su un piatto unico tutti gli elementi che caratterizzano ed influenzano il “fare impresa sociale”. E’ ora che si inizi a fare sul serio per poter essere, come disse Gandhi, il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, ed allora iniziamo con la presa di posizione della Commissione Europea.

E’ il 18 novembre 2011 e l’OECD, compie probabilmente il passo pubblico più significativo chiamando a raccolta i creative thinkers nelle vesti degli innovatori (di successo) dell’ambito (vasto senza dubbio) dell’imprenditoria sociale con la comunicazione della Commissione Europea al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni dell’Iniziativa per l’Imprenditoria Sociale. Obiettivi di questo incontro sono la delineazione di un piano d’azione per accompagnare lo sviluppo delle imprese sociali, attori chiave dell’economia sociale e dell’innovazione sociale e poter sottoporre a dibattito spunti di riflessione per il medio/lungo termine.
Nonostante la palese ricerca di pubblicità ed approvazione di un atto innegabilmente dal punto di vista comunicativo più politico che strutturale, il documento pubblicato dall’organizzazione è importante in quanto comunicazione ufficiale del passaggio avvenuto nel considerare la social entrepreneurship non più come solo una delle forme dell’imprenditorialità sensibile al settore del sociale in termini di ricezione e output, ma riconoscendole di fatto un ruolo centrale per risollevare l’indice di creazione di imprese e la soddisfazione dei nuovi bisogni della comunità europea.
In platea gli ospiti “stakeholders” sono Mohammad Yunus, fondatore della “Grameen Bank”, banca di investimento e microcredito del Bangladesh, Sir Ronald Cohen, CEO del fondo di investimenti inglese Big Society Capital, ma anche rappresentanti delle fondazioni pioniere della social entrepreneurship come la Ashoka Europe, Mirjam Schoning della Schwab Foundation, il commissario europeo Lazlo Andor ed il ministro danese per la crescita e lo sviluppo Ole Sohn, che sintetizza probabilmente le riflessioni e le preoccupazioni di chi nel settore ha già una discreta esperienza.

Il compito o se può essere più chiaro, ciò che spetta all’Unione Europea riguarda l’enfatizzazione ed il supporto sul lato imprenditoriale delle iniziative di impresa, così da poter concepire il ruolo di U.E. come incubatore di innovazione sociale.

Quello che viene fuori dall’incontro, riguarda quindi le principali necessità espresse dagli “addetti ai lavori”. Che sono:
  • la delineazione di un framework regolatorio comune per una chiara identificazione dell’impresa sociale all’interno dell’Unione Europea mantenendo le differenze in termini di politiche nazionali per ogni paese membro,
  •  evidenziare i principali stakeholders coinvolti nel settore,
  •  definire il ruolo dei fondi di investimento e le aree sociali di intervento raggiunte,
  • gettare luce sulle problematiche principali affrontate da questi innovatori ed infine le iniziative da rendere operative.

L’Unione Europea ha perciò intenzione di attuare un intervento trasversale entro la fine del 2012 sotto forma di 11 azioni chiave prioritarie nelle tre macro aree di intervento evidenziate come miglioramento dell’accesso ai finanziamenti, della visibilità delle imprese sociali e del contesto giuridico.
Nel prossimi post continuerò sintetizzando i punti fondamentali e le aree di intervento evidenziate dalla commissione, e per il momento vi lascio con un bellissimo punto di partenza: il link alla school for social entrepreneurs  (http://www.sse.org.uk/index.php), la famosa scuola fondata a fine anni 90 che chiaramente mette ai primi posti nei principi che devono guidare i suoi allievi, passione, determinazione, essere visionari e fedeli all’idea che vuole cambiare e migliorare la società e/o l’ambiente...il primo passo è tutto!  http://www.youtube.com/watch?v=kB3BrKI5XM4

sabato 17 dicembre 2011

Imprenditorialità sociale (parte III)

Con questo post desidero chiudere la riflessione sull’imprenditorialità sociale che avevo lasciato in sospeso con il mio precedente post. Colgo inoltre l’opportunità per introdurre ai lettori e dare un benvenuto a Valentina Cecchetto, un nuovo membro del nostro team che presterà particolare attenzione a tutto ciò che ruota attorno al mondo dell’imprenditorialità sociale, green e sostenibile in genere. Dunque in attesa dei primi post di Valentina sul tema, vado a chiudere il mio thread cercando di offrire qualche elemento di discussione sul possibile ruolo del governo a sostegno dell’imprenditorialità sociale. Sarò schematico, con l’intento di suggerire semplicemente alcune possibili linee di intervento sulla base di esempi esistenti:

Creare degli istituì dedicati alla promozione dell’imprenditorialità sociale
o  In Louisiana è nato un incubatore per progetti di innovazione sociale in risposta a Katrina. Trovate i dettagli qui 
o  La casa bianca ha creato un Office of Social Innovation and Civic Participation 

Promuove l’imprenditorialità sociale attraverso premi, riconoscimenti, manifestazioni
o  SocialInnovation Forum di Boston seleziona 5 idee ad alti impatto sociale offrendo un pacchetto di servizi e risorse finanziari ai vincitori che vengono affiancati e supportati per 18 mesi 
o  Le fondazioni, come accennato nel precedente post, premiano e celebrano casi di successo (Ashoka, Skoll, Schwab, …). Schwab ad esempio selezione annualmente l’imprenditore sociale dell’anno e lavora in partnership con diverse scuole per dedicare loro casi studi etc.

Rimozione di barriere legali e fiscali a supporto degli imprenditori sociali
o  StartUp America ha creato una piattaforma online per permettere agli imprenditori di suggerire aree di intervento. Ha inoltre organizzato un roadshow in 8 città per incontrare imprenditori e intavolare una discussione su aree di intervento
o  Alcuni governi hanno introdotto strumenti finanziari quali il “Social Impact Bond”:  un prodotto derivato legato alla performance di una organizzazione no-profit che cerca di risolvere un problema sociale. A seconda della performance dell’organizzazione lo stato paga un interesse più o meno alto. Dunque c’è un costo monetario pubblico subordinato all’impatto sociale!
o  Penso inoltre a nuove forme giuridiche come la low profit limited liability partnership (detta anche LC3, introdotta per la prima volta in North Carolina). Oppure la community interest company in UK  (intorodtta nel 2005) forma misto profit-no profit. Insomma forme che facilitino la costituzione di imprese con modelli di business ibridi

Dedicare una piccola percentuale di finanziamenti pubblici alla sperimentazione sociale
o  Creare, perché no, un portfolio di progetti di innovazione sociale

Creazione di fondi di investimento misti pubblico privati dedicati all’innovazione sociale
o  Fondi di Social Venture Capital (SVC) con criteri rigorosi di monitoraggio e selezione che permettano lo scaling di progetti a carattere sociale. Sempre con un obietivo di triple bottom line in testa: people, planet, profit. Penso ad esempio all’Acumen Fund, creato da Cisco e dalla Rockfeller Foundation. Si tratta di un fondo globale non profit che ha come missione quella di alleviare al povertà del mondo attraverso modelli di innovazione sociale (equity o debito, no grant)
o  Poi le fondazioni filantropiche tipo Ashoka, Skoll, Robin Hood Foundation
  
Mobilitare il volontariato
o  ReServe è una sorta di agenzia di lavoro interinale completamente dedicata al volontariato over 50 per persone che vogliono spendere la loro professionalità per cause di tipo sociale. Insomma un placement del volontariato
o  TaprotFundation è una fondazione che fa matching tra professionisti qualificati in pensione e servizi non profit in campo educativo/salute/ambiente. I grant non sono soldi ma ore di forza lavoro qualificata da impiegare su progetti sociali

Insomma di idee e iniziative se ne possono immaginare molteplici. Servono maggiori punti di riferimento sul territorio e una più diffusa sensibilizzazione. Nel nostro piccolo cercheremo di darci da fare mantenendo un flusso costante di idee e riflessioni su questo affascinante e fondamentale tema. Chiudo socnsigliandovi questo bel video realizzato dalla fondazione Make a Change.



A presto.

giovedì 8 dicembre 2011

Imprenditore: una parola - molteplici significati

La definizione di imprenditore assume significati e connotazioni diversi a seconda del contesto, del tempo e del luogo nel quale si declina. In questo si comporta esattamente come qualsiasi concetto culturale (e utilizzo culturale con accezione presa a prestito dalla sociologia).
Negli Stati Uniti è, da un paio d'anni, esploso il fenomeno dei food trucks. L'idea è, allo stesso tempo, semplice e geniale: poter gustare cibo di qualità preparato al momento senza necessariamente doversi sedere ad un ristorante. La varietà di food trucks che hanno iniziato a popolare le strade delle città è molto ampia: si va da comfort food (quello che in Italia si potrebbe definire "della nonna") a prodotti specifici (cupcakes ad esempio) fino a veri e propri ristoranti raffinati su ruote. Alcuni degli chef dietro questi food trucks hanno anche ristoranti tradizionali, ovvero fatti di quattro mura.


Sono imprenditori?

Vediamo:
- hanno sviluppato un'idea innovativa (non che non esistessero prima, ma ne hanno rivoluzionato il concetto, democratizzando il prodotto senza che questo necessitasse di compromessi in termini di qualità)
- hanno saputo intercettare una fascia di clientela i cui bisogni erano attualmente insoddisfatti (mangiare cibo di qualità a prezzi abbordabili anche durante una veloce pausa pranzo)
- hanno sviluppato modelli di business basati sul concetto di bootstrapping (investimento ridotto e utilizzo di tutte le risorse fino all'ultimo centesimo)

Hanno tutti i crismi per essere definiti imprenditori e come tali vengono trattati dalla stampa sia di business che di critica gastronomica.

Spostiamoci in Italia.


Il concetto è presente nella nostra cultura da decenni: paninari, porchettari, piadinari e quant'altro. Solitamente posizionati nelle vicinanze di locali notturni ad orari prossimi alla chiusura degli stessi, capitalizzano su una clientela poco incline ad una scelta informata, quanto spinta ad una scelta obbligata o priva di alternative.

Chi li definirebbe imprenditori in Italia? Temo pochissime persone.
E questo mi serve per esprimere il messaggio chiave di questo post: se si vuole contribuire alla ripresa economica del nostro Paese, è necessario lasciare che le energie dei giovani vengano canalizzate in attività imprenditoriali dove l'etichetta imprenditoriale deve essere affissa con dignità qualsiasi sia il settore scelto. Bisogna dismettere atteggiamenti e predisposizioni vetusti e dannosi quali "eh ma devi trovarti un lavoro serio". Bisogna invece incoraggiare a capitalizzare sulle proprie energie, passioni, interessi e promuovere lo spirito di iniziativa, soprattutto nei giovani. Proprio la scorsa settimana ho conosciuto una persona che, dopo un MBA conseguito presso la Kellogg School of Management (top 5 al mondo secondo Business Week) si è iscritta ad una scuola di cucina per seguire una sua passione ed ha poi aperto un ristorante, dimostrazione di come ci si debba liberare dall'oppressione dell'escalation of committment. Oppure sapersi reinventare imprenditori in momenti di difficoltà economica e disoccupazione.
Certo è necessario che a livello istituzionale ci sia maggiore attenzione all'iniziativa imprenditoriale come volano dell'economia (defiscalizzazione, incentivi per l'imprenditoria giovanile e in aree economicamente depresse, deburocratizzazione), ma non è che queste spesso rimangano giustificazioni a copertura di un atteggiamento mentale poco aperto alla sfida imprenditoriale?

Io vorrei vedere centinaia di food trucks invadere le strade italiane con tutte le varietà di cibi regionali cucinate con attenzione al prodotto e prezzi contenuti per venire incontro al difficile momento economico. Vorrei vedere questi imprenditori. Poi benvengano anche gli Steve Jobs.

martedì 29 novembre 2011

Imprenditorialità e social marketing: leva a costo zero?

È inutile ribadire quanto Facebook, Twitter, Tumblr, Google+ e altri mezzi di comunicazione e aggregazione sociali siano oramai integrati nel tessuto comportamentale di qualunque persona con un minimo di informatizzazione. Né è necessario snocciolare dati sul loro utilizzo, il numero di utenti e così via.

Quel che mi interessa è: quanto valgono? Quanto sono utili?

La vulgata vuole che permettano un marketing a costo zero. Fantastico. Tutti gli imprenditori o startupper che, per definizione/eccellenza, fanno di bootstrapping virtù, allora dovrebbero aver trovato la soluzione al grande grattacapo che si sostanzia nella domanda "come faccio a farmi conoscere?"
Il mondo del music business (se tale possiamo ancora definirlo) fu il primo a cavalcare quest'onda qualche anno addietro. I successi di Arctic Monkeys e Lily Allen (qui) a cavallo del 2005 e 2006 sembravano aver mostrato all'industria musicale, strangolata dalla pirateria (sarà poi vero?), la strada maestra per la rinascita: tagliare o addirittura azzerare i costi in A&R e sfruttare il mezzo sociale come piattaforma di verifica del successo dell'artista, minimizzando, così, il rischio imprenditoriale e di mercato. Tutto perfetto, tutti contenti e tutti a sperticarsi sulla necessità della presenza sui social network. La conseguenza: tutti si sono lanciati sul social marketing: dalla grande multinazionale petrolchimica al fruttivendolo. Il ragionamento: "tanto che ci vuole? Bastano 5 minuti a creare un account Facebook e Twitter..."

Nel corso di New Venture Formation che ho insegnato questo semestre mi sono accorto che i business plan dei miei studenti includono tutti, a diversi livelli (solitamente piuttosto elevati), una forma di promozione su social network. E tutti, puntualmente, danno per scontato che il successo sia garantito, che il passaparola funzioni, che la crescita degli utenti/clienti sia "naturale"..
Soprattutto: che sia (quasi del tutto) GRATIS.

Un esempio lampante: un gruppo di miei studenti che sta lavorando ad un'applicazione per smartphone per la vendita di libri usati in campus ha messo a budget in costi di marketing e pubblicità 120 dollari all'anno.

120 dollari (sic...)

In viaggio di ritorno post Thanksgiving mi sono imbattuto nel nuovo numero di Inc. dove si parla proprio di questo e si citano numeri ed esempi.
Seguite per caso l'account Twitter di qualche celebrità e ha twittato un giorno un link ad un prodotto che ha provato, un locale nel quale è stato/a? Quasi sicuramente dietro a quell'operazione c'è SponsoredTweets, servizio che permette di ottenere un tweet di un personaggio famoso (e di conseguenza con molti follower) con un link al proprio sito. Un esempio: un tweet di Lindsay Lohan (circa 2,5 milioni di follower) per un sito di gaming online orientato alla popolazione del college americana è costato 2353 dollari. Il risultato? 4500 click diretti dal tweet, 500 nuovi iscritti, parte dei quali (non dichiarato dalla società) utilizzatori frequenti. Circa 4,70 dollari a nuovo iscritto.

Gratis? Non proprio...

E il mantenimento costante degli account sui diversi media, da parte di una società di professionisti della comunicazione può costare da qualche centinaio di dollari a svariate migliaia al mese, soprattutto se si vogliono organizzare contest, offerte, etc.

Chiaro che si può anche pensare di fare tutto "in casa", ma le probabilità di
1) investire tempo nella gestione e nel mantenimento degli account e ottenere pressoché nulli ritorni o
2) non investire tempo alcuno e, pertanto, non ottenere alcun ritorno
sono prossime al 100%.

Ma la vera domanda a monte è: ma siamo proprio sicuri che serva una pagina facebook (quindi aperta, potenzialmente, ai commenti di chiunque) ad una multinazionale del petrolchimico? E al fruttivendolo sotto casa?

sabato 12 novembre 2011

Imprenditorialità sociale (parte II)

Nella prima parte di questo post ci eravamo lasciati con la promessa di gettare luce sugli imprenditori sociali, protagonisti di un trend in costante ascesa. Basti pensare che solo cinque anni fa il concetto di imprenditore sociale era pressoché sconosciuto. Se si utilizza Google come barometro del cambiamento ci si rende rapidamente conto di quanto le cose siano cambiate.  Ecco che cosa ha restituito una ricerca del termine “social entrepreneur” su Google  nel corso degli ultimi anni:

Social Entrepreneur su Google

Anno
Hits
2006
12.400
2007
100.000
2009
7.500.000
2011
68.000.000

L'ascesa è impressionante!

Altre osservazioni che confermano e supportano questo trend:
- A livello accademico negli ultimi 5-6 anni sono letteralmente fioriti i corsi  universitari che si occupano di imprenditorialità sociale. Penso ad esempio alle specializzazioni in imprenditorialità sociale offerte da scuole come Oxford, Duke, Stanford etc.
- Si sono inoltre moltiplicate le fondazioni che supportano, sostengono e celebrano gli imprenditori sociali e le loro idee. Mi vengono in mente, tra le altre, la Schwab Foundation (creata da Klaus and Hilde Schwab, già ideatori del World Economic Forum), la Skoll Foundation (del co-fondatore di ebay) o la Ashoka Foundation.
- Sempre più numerosi i fondi di capitale di rischio no-profit dedicati all’imprenditorialità sociale. Tra i più noti penso ad Acumen Fund negli States oppure l’esperienza italiana di Luciano Balbo con Oltreventure
- Nel 2006 viene conferito il Nobel per la pace a  Muhammad Yunus, imprenditore sociale per eccellenza, inventore del microcredito e di Grameen Bank.

Muhammad Yunus

Alla luce di questi indicatori di un movimento sempre più forte e diffuso che cosa si intende dunque con imprenditori sociali? Rispondo riportandovi alcune tra le definizioni più ricorrenti e diffuse:

Ashoka Foundation: “Gli imprenditori sociali sono agenti del cambiamento per il settore sociale. Sono guidati dalla propria missione, determinati a raggiungere risultati e impegnati a mantenere la propria responsabilità di fronte alle comunità che servono. Gli imprenditori sociali effettuano una trasformazione sistemica affrontando non solo il problema, ma anche le sue radici”
Schwab Foundation “Un imprenditore sociale è un tipo di imprenditore che fa uso dell’innovazione per migliorare il mondo attraverso soluzioni di mercato. Gli imprenditori sociali sfruttano le proprie competenze e la propria creatività per cercare di risolvere un problema sociale urgente, con l’intento di avere un impatto positivo.”
Public Innovators “Qui si definisce l’imprenditoria sociale come la pratica di rispondere ai fallimenti del mercato con innovazioni trasformative e finanziariamente sostenibili volte alla soluzione dei problemi sociali. Le tre componenti essenziali dell’imprenditoria sociale sono: 1) risposta ai fallimenti del mercato, 2) innovazione trasformativa e 3) sostenibilità finanziaria.”

Qualche esempio? 

Piattaforma online basata sul principio del crowdfunding per garantire finanziamenti e lineo di crediti in paesi in via di sviluppo. Creata da Jessica Jackley 6 anni fa ad aggi ha attratto micro-finanziamenti da parte di oltre 700.000 persone per un ammontare complessivo di 240.000000 di capitale raccolto. La cosa più sorprendente è il tasso di solvibilità degli imprenditori finanziati, superiore al 99%!. Vi consiglio questo video toccante, in cui racconta Kiva, dall’idea ai risultati straordinari di oggi




Creata da Charles Bests, ex insegnante di scuole superiori per mettere in contatto le scuole con una moltitudine di micro-filantropi che pagano spese di cancelleria, ristrutturazione etc. sulla base delle carenze specifiche (certificate dal sito) segnalate da insegnanti e formatori. Ad oggi si contano quasi 90.000.000 di dollari raccolti e 210.000 progetti scolastici finanziati. In cambio i sostenitori ricevono una foto della classe con un ringraziamento firmato da tutti gli studenti!


Wendy Koepp l’ha creata a partire dalla tesi triennale. Oggi  conta 46000 applications all’anno di neolaureati che dedicano due anni della loro vita professionale all’insegnamento in scuole “difficili” (licei - per lo più in aree rurali). Teach For America ha mobilizzato 17.000 laureati in alcune delle scuole più complicate del paese.

 Wendy Koepp


Sono esempi edificanti che mostrano come la strada sia aperta e percorribile. Ci dicono anche che possiamo e dobbiamo fare di più per promuovere questo fenomeno. Come? Qualche idea ce l’ho e la condividerò con vio nel prossimo post. Ciao

domenica 9 ottobre 2011

L'imprenditorialità sociale (parte I)

Alla fine di Agosto si è conclusa la decima edizione di Vedrò, think thank ricco di dibattiti e tavole rotonde che ha luogo ogni anno a Drò. Voglio qui riportare alcune riflessioni che ho maturato a seguito della stimolante discussione che ha preso forma nel working group a cui ho preso parte, dedicato al tema della innovazione sociale. La tavola rotonda è stata per me un occasione per approfondire il tema dell’imprenditorialità sociale, un fenomeno che sta catalizzando sempre più l’attenzione di studiosi e media.

Per capire che cosa si intende per imprenditorialità sociale parto da alcuni numeri disarmanti, per quanto aridi:
-          Gli abitanti della terra sono circa 6.7 bilioni. Tutte le stime convergono nell’indicare un incremento fino a 9 bilioni nei prossimi 40 anni.
-          785 milioni di persone sono ad oggi analfabete (2/3 donne)
-          Ogni giorno si estinguono circa 70 specie di organismi viventi (animali o vegetali)
-          Se le emissioni di gas serra non vengono ridotte dell’80% entro il 2050 la temperatura del pianeta crescerà di oltre 3°C con effetti irreversibili (e catastrofici) sul clima.
-          Sulla scena globale ci sono quasi 3 bilioni di persone che sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno;
-          862 milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà
-          La malaria uccide un milione di bambini ogni giorno.
-          16000 mila bambini muoiono ogni giorno per cause collegate alla malnutrizione

La lista potrebbe continuare a lungo. I numeri sono espressione di almeno 5 fondamentali trend sociali e macroeconomici che caratterizzano il nostro pianeta ovvero a) crescita della popolazione; b) degrado dell’ecosistema; c) incremento delle disparità socio-economiche; d)  cambiamento climatico. Purtroppo queste dinamiche pongono sfide a cui il mercato spesso non riesce a rispondere con soluzioni distributive sostenibili e eque. E’ in questo contesto che gli imprenditori sociali possono giocare un ruolo determinante. Che cosa significa dunque con l’espressione “imprenditorialità sociale”? Chi sono gli “imprenditori sociali”? No vi rispondo direttamente, vi invito invece a dare un’occhiata a questo video. Nella parte II di questo post riprenderò da qui il filo del discorso. A prestissimo!


sabato 13 agosto 2011

Creatività e Collaborazione (parte III)

Chiudo la serie di post su creatività e collaborazione (l'ultimo dei quali qui) segnalandovi un articolo che il Corriere della Sera ha dedicato all'attività di ricerca che sto conducendo sul tema. Potete scaricarlo cliccando qui. Saluti e Buona Estate!

martedì 26 luglio 2011

L'ascesa dell'imprenditorialità e il ruolo dei giovani (parte III)

Scusate la lunga latitanza dovuta a impegni all’estero. Oggi desidero esporre la terza e ultima parte della riflessione avviata oltre un mese fa sul rapporto tra giovani e imprenditorialità. Ci eravamo lasciati nella parte II con un semplice quesito. Quali sono le (poche) start-up italiane che oggi vengono da tutti considerate come le exit di maggior successo degli ultimi anni?
Ho fatto una piccola ricerca ed ecco cosa ho trovato:

Mutui Online:  valutazione all'uscita 170M
Venere.com:  valutazione all'uscita (stimata) superiore a 500M
Dada: valutazione all'uscita 120M
Yoox: valutazione all'uscita: 220M

Sapete da che cosa sono accomunate queste imprese? Facile! I fondatori avevano tutti poco meno o poco più di 30 anni quando le hanno create. Per la precisione:

Alessandro C. Fracassi (fondatore di Mutui Online):  30 anni 
Matteo Fago (co-fondatore di Venere, assieme a tre compagni di università): meno di 30 anni
Paolo Barberis (co-fondatore di  DADA assieme a tre compagni di corso nella facoltà di Architettura): meno di 30 anni 
Federico Marchetti (fondatore di Yoox): 31 anni



Ovviamente a fronte di queste startup che ce l’hanno fatta ce ne sono tantissime che si arenano o  cessano l’attività. E’ un fatto statistico ineludibile. La sopravvivenza a 4/5 anni crolla del 50%. Proprio per questo motivo ritengo che iniziative a sostegno della giovane imprenditorialità siano indispensabili, non solo e non tanto per le risorse economiche che offrono, ma perché permettono di entrare a far parte di una comunità di persone che si mettono in gioco e con cui potersi confrontare e incoraggiare nel momento più critico, quando si innova e dunque si rischia. 

giovedì 23 giugno 2011

L'ascesa dell'imprenditorialità e il ruolo dei giovani (parte II)

Nella parte I del post che ho aperto un paio di settimane fa sul rapporto tra giovani e imprenditorialità ci siamo lasciati constatando come spesso sia difficile per le grandi imprese farsi agenti di cambiamento e trasformazione economica. Da chi dipende dunque il cambiamento? Rispondo a seguire e parto da tale riflessione per riallacciarmi al tema giovani e imprenditorialità.

Giovani e imprenditorialità
La risposta è presto data. La vera responsabilità del cambiamento sta sulle spalle delle nuove imprese e degli imprenditori che le creano. Ed è una responsabilità impegnativa che richiede una certa dose di coraggio. Perché chi innova si dovrà scontrare con un sistema inevitabilmente scettico che, in quanto espressione del vecchio, farà fatica a riconoscere il nuovo o a riconoscerne il valore, e cercherà altresì di difendersi contro quella che Schumpeter descriveva come l’onda di distruzione creatrice. Per accollarsi questa responsabilità serve dunque una dose di coraggio non comune. Non a caso Richard Branson definisce l’imprenditore come un avventuriero, qualcuno che ha il coraggio di addentrarsi in sentieri che la maggior parte delle persone non osano esplorare.



In questa luce non sorprende che nell’ultimo rapporto prodotto dal GEM si identifichi nell’avversione al rischio il principale fattore di impedimento all’imprenditorialità. E questo ci permette inoltre di capire perché il rapporto tra imprenditorialità e giovani sia così stretto. Perché se c’è un risultato robusto negli studi di psicologia sociale è che l’avversione al rischio cresce con l’età, poichè più si avanza nella propria vita personale e professionale più è alto il costo opportunità di mettersi in gioco.

Bernard Shaw diceva che l’uomo ragionevole si adatta al mondo mentre l’uomo irragionevole adatta il mondo a sé. Dunque tutto il progresso dipende dall’uomo irragionevole. E’ questa la sana irragionevolezza - Steve Jobs probabilmente parlerebbe di foolishness (o forse è meglio chiamarla audacia sfrontata) - di cui la giovinezza è ricca. E' grosso modo proprio questo il principale messaggio che esce dalla tavola rotonda di giovani imprenditori che si è tenuta l'anno scorso a Stanford e di cui trovate qui sotto un breve resoconto video. Quando si è giovani è più naturale prendere decisioni non convenzionali, semplicemente perchè non si è ancora imbrigliati in logiche di settore o modi consolidati di fare le cose.



Qualche anno fa a Silicon Valley Eric Schmidt, Chairman di Google e Micheal Moritz di Sequoia, il più potente VC al mondo vennero intervistati in un pane dal titolo “Why VCs Love Young Blood”. In quell’occasione Moritz incominciò a snocciolare una serie di aziende impressionanti da Apple a Google, a Microsoft a Facebook, a Sun a Oracle a Ebay, Groupon. Da cosa sono accumunate queste imprese....? Facile. Sono state tutte fondate da ragazzi tra 20 e 30 anni!

Per curiosità ho fatto un piccolo esercizio analogo concentrandomi sull'Italia. Molto banalmente ho isolato le (poche) start-up italiane che oggi vengono da tutti considerate come le exit di maggior successo degli ultimi anni, ovverosia imprese partecipate da capitale di rischio che hanno garantito ritorni multimilionari sul capitale investito. Che cosa ho scoperto?

Ve lo rivelerò nella terza e ultima parte di questo post. Online a breve. Ciao!

mercoledì 8 giugno 2011

L'ascesa dell'imprenditorialità e il ruolo dei giovani (parte I)

Oggi vorrei riproporre alcuni spunti di riflessione sulla relazione che intercorre tra l'essere giovani e il fare impresa. Scrivo "riproporre" perchè si tratta di idee che ho avuto modo di discutere in occasione di alcuni recenti convegni e che desidero oggi sedimentare attraverso il blog. Parto da una osservazione di carattere macro - ovverosia l'ascesa a livello globale del tema imprenditorialità (parte I), per poi concentrarmi in modo più specifico sul rapporto giovani-nuova impresa (parte II).

Negli ultimi ani sono letteralmente fiorite iniziative volte a promuovere l’imprenditorialità. Penso ad esempio alla Start Up Initiative di Intesa, al programma Fulbright Best che porta giovani imprenditori in Silicon Valey, a Mind the Bridge lanciato da Marco Marinucci per premiare idee di impresa innovative, a  Working Capital unitamente al Premio Nazionale per l'Innovazione e al più recente InnovActLab. E’ addirittura nata grazie al supporto della Kaufman Foundation una vera e propria settimana dell’imprenditorialità a livello mondiale la GEW.

Anche i media hanno avuto la loro parte. Sono proliferate negli ultimi 5 anni  trasmissioni di grande successo dedicate a questo tema. Dragon Den è un format in cui gruppi di giovani devono presentare la loro idea a investitori professionali. Nato in Giappone è oggi trasmesso in 12 paesi.



In The Shark Tank prodotto dalla ABC un gruppo di startup ha pochi minuti per convincere un panel di investitori. E’ appena partita la seconda stagione. The Apprentice ha prodotto numerosi spinoffs. Anche in Cina è stata lanciata una trasmissione in cui un gruppo di imprenditori ha l’opportunità di ottenere 1.3 milioni di finanziamenti per la propria idea.


Insomma, si direbbe proprio che l’imprenditorialità sia divenuta mainstream. La domanda sorge dunque spontanea. Come mai l'interesse pubblico e provato ha subito negli utlimi anni questa accelerazione?

Si possono probabilmente immaginare molteplici concause alla base di questa catalizzazione di interesse attorno all’imprenditorialità ma probabilmente vi è un fattore che più di ogni altro ha giocato un ruolo determinate. Ed è il fatto che raramente le economie capitalistiche hanno avvertito un bisogno di rinnovamento così intenso come in questo periodo storico, in cui le crisi finanziaria ha messo a nudo i punti deboli di settori industriali maturi e in cui la globalizzazione richiede ripensamenti profondi delle filiere del valore. Il punto è che le grandi imprese o più in generale le imprese esistenti spesso (il più delle volte) non sono attrezzate per rispondere con sistematicità a questo bisogno di rinnovamento. Perché il rinnovamento implica per sua stessa natura una messa in discussione dello status quo e dunque un ripensamento delle basi del proprio successo. Questa considerazione è indispensabile per apprezzare la relazione tra gioavani e nuova impresa. Partiremo da qui nella seconda parte di questo post.