sabato 31 dicembre 2011

SE ANCHE L’EUROPA DICE “S.E.” – Social entrepreneurship (parte 3)

Ed eccoci all'ultimo post di un anno che ha visto i popoli prendere coscienza, forse per la prima volta, di quanto sia urgente attivarsi per dare una spinta diversa, una diversa leva, alla crescita mondiale.

Il motivo per non limitarsi a “crederci” ma voler “essere una parte” di tutto ciò lo svelano anche questi dati:

- il 6% dei lavoratori dipendenti europei (11 milioni) è impiegato nell’economia sociale;
- circa 1 su 4 / 1 su 3 imprese create in Europa è un’impresa sociale. Una stima del 2009 dava la quota di popolazione attiva nell’imprenditoria sociale con punte del 7,5% in Finlandia, 5,7% e 5,4% rispettivamente in Regno Unito e Slovenia, 4,1% in Belgio, 3,3% e 3,1% in Italia e Francia.

Suddivise in entità dotate di uno specifico statuto giuridico (questa modalità di governance viene sfruttata appieno proprio a causa dell’alta partecipazione e l’apertura che le caratterizzano) come cooperative, fondazioni, associazioni e mutue, nonché imprese sociali aventi forma di società privata o di società per azioni tradizionale, la loro principale caratteristica risiede nel fondamentale e determinato impegno personale dei dipendenti che permette loro di essere spesso più produttive e competitive di quello che naturalmente ci si aspetta.

L’attenzione riservata alle imprese sociali dalla Commissione Europea si giustifica da sola con il seguente ragionamento: la necessità di rispondere ai bisogni insoddisfatti della popolazione viene soddisfatta con un crescente grado di innovazione sociale. Innovazione sociale che fa parte di una crescita intelligente impostata secondo una visione a lungo termine, orientata verso una crescita sostenibile (cosciente dell’impatto ambientale) ed inclusiva (che ponga perciò al core delle loro strategie l’aspetto umano e la coesione sociale), con l’obiettivo di organizzare trasformazioni sociali ed economiche funzionali agli obiettivi  della Strategia Europa 2020.

Siamo ancora così sicuri di non voler sfidare le normali concezioni di sociale?

Analizziamo innanzitutto le ragioni per questo piano di esserci:

1-    La necessità di creare la crescita interna del mercato unico europeo attraverso lo sviluppo occupazionale. Allo stesso tempo questa crescita deve rispondere alla richiesta dei cittadini europei di un impatto ed un significato più etici e sociali negli ambiti di lavoro, consumi, risparmi ed investimento. Intervenendo si dovrà dare priorità strategica all’economia sociale e l’innovazione sociale sia in ambito di coesione territoriale che di ricerca di soluzioni originali per i problemi della società nel “raggiungimento di una economia sociale di mercato altamente competitiva”.[1]

2-    L’elevato interesse verso la capacità delle imprese sociali di proporre e creare soluzioni innovative in risposta a necessità e sfide economiche, sociali, ambientali, facendosi promotrici di occupazione stabile e poco delocalizzabile, di integrazione sociale, del miglioramento dei servizi sociali locali e della coesione territoriale. Come dire, l’impresa funziona efficientemente, efficacemente, creando valore e rispettando valori, e il tutto è testimoniato da “dati fisici” emersi per la redazione dell’Atto per il Mercato Unico.

3-    L’obiettivo principale dell’impresa sociale (che è ciò che la distingue dalle business enterprises e dalle socially responsible enterprises) di generare utili con lo scopo di creare un impatto sociale, operando nel mercato producendo beni e servizi in modo imprenditoriale e innovativo, mantenendo una gestione responsabile e trasparente, che involucri e coinvolga tutti gli stakeholders dell’impresa, cioè dipendenti, clienti e altri soggetti interessati dalle sue attività commerciali.

I tre grandi interventi previsti dalla Commissione sul finanziamento, sul riconoscimento dell’imprenditoria sociale e sul quadro normativo europeo rientrano quindi nell’ottica più generale di equiparare le opportunità per le imprese sociali con quelle delle PMI.
Infatti oltre ad affrontare le sfide del mercato competitivo come le PMI (già supportate dall’insieme di iniziative di agevolazioni incluse nello Small Business Act per l’Europa), le imprese sociali hanno sfide specifiche (come le norme del mercato unico in materia di regolamentazione bancaria, di accesso ai fondi strutturali o di attuazione delle regole applicabili agli appalti pubblici), che devono essere risolte per permettere l’equa competizione nel mercato unico europeo.


Concludo il 2011 con l'esempio di Mark Kragh, direttore di KnowYourPlanet, che sta portando avanti il progetto di risolvere il problema dell mancanza di infrastrutture per la ricarica degli apparecchi elettronici in Kenya attraverso la costruzione e la vendita di un kit per fabbricarsi il proprio caricatore a cellule fotovoltaiche  DIY (fai-da-te) con materiale di scarto. Che dire gli elementi ci sono tutti: Riciclo, Risolvere problemi sociali ed ambientali (non dimentichiamo che la diffusione dei telefonini è decisamente maggiore della diffusione della rete di infrastrutture in Africa), Market-Orientation.... Come ci si sente a fare parte di tutto ciò??



[1] Per ulteriori informazioni rimando ai documenti sulla Strategia Europa 2020 “Europa 2020 – Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, sull’ iniziativa “L’Unione dell’innovazione”, sulla Piattaforma Europea contro lapovertà e l’esclusione sociale COM(2010) e sull’“Atto per il Mercato Unico” COM(2010)

venerdì 23 dicembre 2011

SE ANCHE L’EUROPA DICE “S.E.” – Social entrepreneurship (parte 2)

Prima di iniziare a parlare delle misure che la Commissione Europea vuole mettere in atto entro il 2012, è necessario delineare cosa sia un impresa sociale e soprattutto che tipi di imprese rientrano nella definizione.
Il primo passo della Commissione è definire “impresa sociale” come caratterizzata da:

·        un obiettivo sociale o socio-culturale di interesse comune che rappresenta la ragione d’essere dell’azione commerciale e che spesso porta ad un livello elevato di innovazione sociale;

·        i cui utili sono principalmente reinvestiti nella realizzazione di tale obiettivo sociale;

·       le cui modalità di organizzazione (o il sistema di proprietà), basandosi su principi democratici/partecipativi o che mirano alla giustizia sociale (per esempio con la riduzione del divario salariale) riflettono la missione.

Le divide poi in due tipi di imprese sociali (e questo è essenziale al momento dell’assegnazione dei fondi e delle politiche di stanziamento dei finanziamenti):
  • è impresa sociale quella che fornisce servizi sociali e/o beni e servizi destinati a un pubblico vulnerabile (accesso all’alloggio e alle cure, assistenza a persone anziane o disabili, inclusione di gruppi vulnerabili, assistenza all’infanzia, accesso all’impiego e alla formazione, gestione della dipendenza…);
  • così come/o anche solo quella la cui modalità di produzione di beni o servizi (supply chain) persegue un obiettivo di natura sociale (integrazione sociale e professionale tramite l’accesso al lavoro di persone svantaggiate soprattutto in ragione di una scarsa qualificazione o di problemi sociali o professionali che ne determinano l’esclusione e l’emarginazione), ma la cui attività può riguardare beni o servizi non di natura sociale.

Per chi si fosse perso nelle definizioni, ecco qua l’elenco di altri esempi della commissione di imprese sociali.



·     - In Italia un centro medico fornisce assistenza specializzata di alto livello, compresa l’intermediazione culturale, soprattutto nelle zone poco servite dai servizi pubblici, con particolare attenzione alle persone che si trovano in situazioni di fragilità socio-economica (ad es. gli immigranti).



·     - In Romania dal 1996 un’impresa di 5 dipendenti e 5 volontari fornisce servizi culturali in lingua rumena ai non vedenti, adattando i vari supporti (soprattutto libri letti, film adattati) a un pubblico di 90 000 persone.

·      - 2004 Un impresa francese ha lanciato un concetto innovativo di servizi di autolavaggio senz’acqua con prodotti biodegradabili, impiegando personale non qualificato o emarginato al fine di reintegrarlo nel mercato del lavoro.

·    - Una fondazione ungherese ha creato un ristorante che impiega personale disabile (40 dipendenti), offre loro formazione e un servizio di assistenza all’infanzia per assicurare la transizione verso un impiego stabile.

·        - Nei Paesi Bassi un’impresa insegna a leggere utilizzando strumenti digitali innovativi e un metodo basato sul gioco. Il metodo è particolarmente adatto ai bambini iperattivi o autistici, ma anche agli analfabeti e agli immigranti.

In Polonia una cooperativa sociale costituita da due associazioni, che impiega disoccupati di lunga durata e persone disabili, offre sul mercato una serie di servizi: servizi di ristorazione e di catering, piccole opere edili e di artigianato nonché la formazione a favore dell’inclusione professionale di persone svantaggiate. 

Dovendo rispettare le differenti definizioni e qualificazioni delle imprese sociali date dagli Stati membri,  solo nel caso di misure normative e/o incentivanti che necessitino di campi di applicazione specifici, si penserà alla definizione normativa.

mercoledì 21 dicembre 2011

SE ANCHE L’EUROPA DICE “S.E.” – Social entrepreneurship

Salve a tutti!! Vorrei iniziare a collaborare a questo blog con una riflessione sull’imprenditoria sociale. Così come molti indizi sono già stati anticipati nel thread precedente, questa riflessione è necessaria per mettere su un piatto unico tutti gli elementi che caratterizzano ed influenzano il “fare impresa sociale”. E’ ora che si inizi a fare sul serio per poter essere, come disse Gandhi, il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, ed allora iniziamo con la presa di posizione della Commissione Europea.

E’ il 18 novembre 2011 e l’OECD, compie probabilmente il passo pubblico più significativo chiamando a raccolta i creative thinkers nelle vesti degli innovatori (di successo) dell’ambito (vasto senza dubbio) dell’imprenditoria sociale con la comunicazione della Commissione Europea al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni dell’Iniziativa per l’Imprenditoria Sociale. Obiettivi di questo incontro sono la delineazione di un piano d’azione per accompagnare lo sviluppo delle imprese sociali, attori chiave dell’economia sociale e dell’innovazione sociale e poter sottoporre a dibattito spunti di riflessione per il medio/lungo termine.
Nonostante la palese ricerca di pubblicità ed approvazione di un atto innegabilmente dal punto di vista comunicativo più politico che strutturale, il documento pubblicato dall’organizzazione è importante in quanto comunicazione ufficiale del passaggio avvenuto nel considerare la social entrepreneurship non più come solo una delle forme dell’imprenditorialità sensibile al settore del sociale in termini di ricezione e output, ma riconoscendole di fatto un ruolo centrale per risollevare l’indice di creazione di imprese e la soddisfazione dei nuovi bisogni della comunità europea.
In platea gli ospiti “stakeholders” sono Mohammad Yunus, fondatore della “Grameen Bank”, banca di investimento e microcredito del Bangladesh, Sir Ronald Cohen, CEO del fondo di investimenti inglese Big Society Capital, ma anche rappresentanti delle fondazioni pioniere della social entrepreneurship come la Ashoka Europe, Mirjam Schoning della Schwab Foundation, il commissario europeo Lazlo Andor ed il ministro danese per la crescita e lo sviluppo Ole Sohn, che sintetizza probabilmente le riflessioni e le preoccupazioni di chi nel settore ha già una discreta esperienza.

Il compito o se può essere più chiaro, ciò che spetta all’Unione Europea riguarda l’enfatizzazione ed il supporto sul lato imprenditoriale delle iniziative di impresa, così da poter concepire il ruolo di U.E. come incubatore di innovazione sociale.

Quello che viene fuori dall’incontro, riguarda quindi le principali necessità espresse dagli “addetti ai lavori”. Che sono:
  • la delineazione di un framework regolatorio comune per una chiara identificazione dell’impresa sociale all’interno dell’Unione Europea mantenendo le differenze in termini di politiche nazionali per ogni paese membro,
  •  evidenziare i principali stakeholders coinvolti nel settore,
  •  definire il ruolo dei fondi di investimento e le aree sociali di intervento raggiunte,
  • gettare luce sulle problematiche principali affrontate da questi innovatori ed infine le iniziative da rendere operative.

L’Unione Europea ha perciò intenzione di attuare un intervento trasversale entro la fine del 2012 sotto forma di 11 azioni chiave prioritarie nelle tre macro aree di intervento evidenziate come miglioramento dell’accesso ai finanziamenti, della visibilità delle imprese sociali e del contesto giuridico.
Nel prossimi post continuerò sintetizzando i punti fondamentali e le aree di intervento evidenziate dalla commissione, e per il momento vi lascio con un bellissimo punto di partenza: il link alla school for social entrepreneurs  (http://www.sse.org.uk/index.php), la famosa scuola fondata a fine anni 90 che chiaramente mette ai primi posti nei principi che devono guidare i suoi allievi, passione, determinazione, essere visionari e fedeli all’idea che vuole cambiare e migliorare la società e/o l’ambiente...il primo passo è tutto!  http://www.youtube.com/watch?v=kB3BrKI5XM4

sabato 17 dicembre 2011

Imprenditorialità sociale (parte III)

Con questo post desidero chiudere la riflessione sull’imprenditorialità sociale che avevo lasciato in sospeso con il mio precedente post. Colgo inoltre l’opportunità per introdurre ai lettori e dare un benvenuto a Valentina Cecchetto, un nuovo membro del nostro team che presterà particolare attenzione a tutto ciò che ruota attorno al mondo dell’imprenditorialità sociale, green e sostenibile in genere. Dunque in attesa dei primi post di Valentina sul tema, vado a chiudere il mio thread cercando di offrire qualche elemento di discussione sul possibile ruolo del governo a sostegno dell’imprenditorialità sociale. Sarò schematico, con l’intento di suggerire semplicemente alcune possibili linee di intervento sulla base di esempi esistenti:

Creare degli istituì dedicati alla promozione dell’imprenditorialità sociale
o  In Louisiana è nato un incubatore per progetti di innovazione sociale in risposta a Katrina. Trovate i dettagli qui 
o  La casa bianca ha creato un Office of Social Innovation and Civic Participation 

Promuove l’imprenditorialità sociale attraverso premi, riconoscimenti, manifestazioni
o  SocialInnovation Forum di Boston seleziona 5 idee ad alti impatto sociale offrendo un pacchetto di servizi e risorse finanziari ai vincitori che vengono affiancati e supportati per 18 mesi 
o  Le fondazioni, come accennato nel precedente post, premiano e celebrano casi di successo (Ashoka, Skoll, Schwab, …). Schwab ad esempio selezione annualmente l’imprenditore sociale dell’anno e lavora in partnership con diverse scuole per dedicare loro casi studi etc.

Rimozione di barriere legali e fiscali a supporto degli imprenditori sociali
o  StartUp America ha creato una piattaforma online per permettere agli imprenditori di suggerire aree di intervento. Ha inoltre organizzato un roadshow in 8 città per incontrare imprenditori e intavolare una discussione su aree di intervento
o  Alcuni governi hanno introdotto strumenti finanziari quali il “Social Impact Bond”:  un prodotto derivato legato alla performance di una organizzazione no-profit che cerca di risolvere un problema sociale. A seconda della performance dell’organizzazione lo stato paga un interesse più o meno alto. Dunque c’è un costo monetario pubblico subordinato all’impatto sociale!
o  Penso inoltre a nuove forme giuridiche come la low profit limited liability partnership (detta anche LC3, introdotta per la prima volta in North Carolina). Oppure la community interest company in UK  (intorodtta nel 2005) forma misto profit-no profit. Insomma forme che facilitino la costituzione di imprese con modelli di business ibridi

Dedicare una piccola percentuale di finanziamenti pubblici alla sperimentazione sociale
o  Creare, perché no, un portfolio di progetti di innovazione sociale

Creazione di fondi di investimento misti pubblico privati dedicati all’innovazione sociale
o  Fondi di Social Venture Capital (SVC) con criteri rigorosi di monitoraggio e selezione che permettano lo scaling di progetti a carattere sociale. Sempre con un obietivo di triple bottom line in testa: people, planet, profit. Penso ad esempio all’Acumen Fund, creato da Cisco e dalla Rockfeller Foundation. Si tratta di un fondo globale non profit che ha come missione quella di alleviare al povertà del mondo attraverso modelli di innovazione sociale (equity o debito, no grant)
o  Poi le fondazioni filantropiche tipo Ashoka, Skoll, Robin Hood Foundation
  
Mobilitare il volontariato
o  ReServe è una sorta di agenzia di lavoro interinale completamente dedicata al volontariato over 50 per persone che vogliono spendere la loro professionalità per cause di tipo sociale. Insomma un placement del volontariato
o  TaprotFundation è una fondazione che fa matching tra professionisti qualificati in pensione e servizi non profit in campo educativo/salute/ambiente. I grant non sono soldi ma ore di forza lavoro qualificata da impiegare su progetti sociali

Insomma di idee e iniziative se ne possono immaginare molteplici. Servono maggiori punti di riferimento sul territorio e una più diffusa sensibilizzazione. Nel nostro piccolo cercheremo di darci da fare mantenendo un flusso costante di idee e riflessioni su questo affascinante e fondamentale tema. Chiudo socnsigliandovi questo bel video realizzato dalla fondazione Make a Change.



A presto.

giovedì 8 dicembre 2011

Imprenditore: una parola - molteplici significati

La definizione di imprenditore assume significati e connotazioni diversi a seconda del contesto, del tempo e del luogo nel quale si declina. In questo si comporta esattamente come qualsiasi concetto culturale (e utilizzo culturale con accezione presa a prestito dalla sociologia).
Negli Stati Uniti è, da un paio d'anni, esploso il fenomeno dei food trucks. L'idea è, allo stesso tempo, semplice e geniale: poter gustare cibo di qualità preparato al momento senza necessariamente doversi sedere ad un ristorante. La varietà di food trucks che hanno iniziato a popolare le strade delle città è molto ampia: si va da comfort food (quello che in Italia si potrebbe definire "della nonna") a prodotti specifici (cupcakes ad esempio) fino a veri e propri ristoranti raffinati su ruote. Alcuni degli chef dietro questi food trucks hanno anche ristoranti tradizionali, ovvero fatti di quattro mura.


Sono imprenditori?

Vediamo:
- hanno sviluppato un'idea innovativa (non che non esistessero prima, ma ne hanno rivoluzionato il concetto, democratizzando il prodotto senza che questo necessitasse di compromessi in termini di qualità)
- hanno saputo intercettare una fascia di clientela i cui bisogni erano attualmente insoddisfatti (mangiare cibo di qualità a prezzi abbordabili anche durante una veloce pausa pranzo)
- hanno sviluppato modelli di business basati sul concetto di bootstrapping (investimento ridotto e utilizzo di tutte le risorse fino all'ultimo centesimo)

Hanno tutti i crismi per essere definiti imprenditori e come tali vengono trattati dalla stampa sia di business che di critica gastronomica.

Spostiamoci in Italia.


Il concetto è presente nella nostra cultura da decenni: paninari, porchettari, piadinari e quant'altro. Solitamente posizionati nelle vicinanze di locali notturni ad orari prossimi alla chiusura degli stessi, capitalizzano su una clientela poco incline ad una scelta informata, quanto spinta ad una scelta obbligata o priva di alternative.

Chi li definirebbe imprenditori in Italia? Temo pochissime persone.
E questo mi serve per esprimere il messaggio chiave di questo post: se si vuole contribuire alla ripresa economica del nostro Paese, è necessario lasciare che le energie dei giovani vengano canalizzate in attività imprenditoriali dove l'etichetta imprenditoriale deve essere affissa con dignità qualsiasi sia il settore scelto. Bisogna dismettere atteggiamenti e predisposizioni vetusti e dannosi quali "eh ma devi trovarti un lavoro serio". Bisogna invece incoraggiare a capitalizzare sulle proprie energie, passioni, interessi e promuovere lo spirito di iniziativa, soprattutto nei giovani. Proprio la scorsa settimana ho conosciuto una persona che, dopo un MBA conseguito presso la Kellogg School of Management (top 5 al mondo secondo Business Week) si è iscritta ad una scuola di cucina per seguire una sua passione ed ha poi aperto un ristorante, dimostrazione di come ci si debba liberare dall'oppressione dell'escalation of committment. Oppure sapersi reinventare imprenditori in momenti di difficoltà economica e disoccupazione.
Certo è necessario che a livello istituzionale ci sia maggiore attenzione all'iniziativa imprenditoriale come volano dell'economia (defiscalizzazione, incentivi per l'imprenditoria giovanile e in aree economicamente depresse, deburocratizzazione), ma non è che queste spesso rimangano giustificazioni a copertura di un atteggiamento mentale poco aperto alla sfida imprenditoriale?

Io vorrei vedere centinaia di food trucks invadere le strade italiane con tutte le varietà di cibi regionali cucinate con attenzione al prodotto e prezzi contenuti per venire incontro al difficile momento economico. Vorrei vedere questi imprenditori. Poi benvengano anche gli Steve Jobs.