Se è vero,
come sosteneva Eraclito, che nulla è permanente come il cambiamento, allora l’impresa
che ambisce a crescere deve sapersi trasformare e
per farlo deve riuscire a mettersi in discussione, aprendosi alla novità e all'autocritica. Il problema è che l’autocritica destabilizza e dunque spaventa. Considerate i risultati di uno studio condotto dalla ricercatrice di Harvard Amy Edmonson, che ha analizzato gli errori nella somministrazione di farmaci
in 8 unità ospedaliere. Sorprendentemente nel corso della ricerca la Edmonson nota che le infermiere che lavorano nelle unita con i manager e le relazioni di
lavoro migliori riportano mediamente anche fino a 10 errori di più rispetto
alle infermiere nelle unità che preformano peggio. Come è possibile che le
unità eccellenti riportino così tanti errori?
Dopo due mesi di osservazione
partecipante in entrambe le unità la risposta diventa evidente. Le infermiere
nelle unità peggiori non segnalavano errori non perché non li commettevano ma
perché avevano paura di riportarli. Nelle unità migliori l’aspettativa comune
era che tutti (manager e infermiere) riportassero gli errori fatti
immediatamente e che ne discutessero le ragioni. Non appena diventava chiara
l’origine dell’errore tutti ne venivano resi edotti. Le unità migliori avevano
cioè creato un cultura in cui l’autocritica veniva vissuta come un legittimo meccanismo di apprendimento
continuo. In altre parole una cultura in cui “sbagliare è lecito e il silenzio
non è sempre d’oro”.
E’
possibile forgiare una cultura d’impresa di questo tipo senza cambiare le
persone che dell'impresa fanno parte? Alcuni miei colleghi studiosi di comportamento organizzativo
probabilmente risponderebbero di no. Che i manager che sono stati protagonisti
di una crescita difficilmente sono
disposti a cambiare la filosofia operativa in cui hanno creduto per anni e che
dunque bisogna essere pronti a scelte drastiche. Personalmente non ho una
risposta. Mi piace però pensare che sia possibile iniettare degli anticorpi all'autocompiacimento che gratifica e rassicura quando le cose vanno bene e che
poi però compromette la capacità di mettersi in discussione.
Penso ad esempio a
Google e alla celebre regola del 80/20 che garantisce ai dipendenti una sorta
di “spazio protetto” in cui sperimentare idee. Penso anche a Facebook in cui
tutti i neo assunti prima di entrare in ruolo passano un periodo intensissimo
di socializzazione di 6 settimane noto come Bootcamp
nel corso del quale i nuovi reclutati (sviluppatori di prodotto, ingegneri, ecc.)
vengono socializzati a rotazione all'interno di vari gruppi di lavoro per brevi progetti sotto la guida di un mentore che li segue per tutto questo periodo.
L’obiettivo è di contagiarli con la "Facebook culture" che si può sintetizzare nel celebre mantra coniato da Zuckerberg “Move fast and break things”. Muoviti, cambia le cose e non avere paura di romperle.
Ecco credo
che progettare questi anticorpi e farli diventare patrimonio della cultura
aziendale sia una componente stimolante e
imprescindibile della sfida imprenditoriale perché difficilmente ci può essere crescita senza un ripensamento periodico dei propri modelli di riferimento.
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