giovedì 4 novembre 2010

Fare impresa: opportunità o necessità?

La recente crisi economica ed il conseguente innalzamento del tasso di disoccupazione hanno portato il tema della creazione d'impresa ancor più al centro del dibattito politico, economico ed accademico. E' interessante notare come la prospettiva US sia, per diversi tratti, assai differente da quella italiana (ed europea, più in generale).

Ma non per i soliti noti motivi (o, per lo meno, non solo).

Per prima cosa la creazione d'impresa è vista come motore dell'economia: sotto il profilo dell'occupazione (creazione di posti di lavoro), sotto il profilo dell'innovazione (creazione di capitale tecnologico e umano) e sotto il profilo di supporto alla comunità (più l'economia è florida, più la comunità di riferimento beneficia dell'impiego del gettito fiscale di queste realtà produttive e del loro apporto diretto in donazioni e iniziative di responsabilità sociale).

E' un secondo aspetto del dibattito, tuttavia, quello che ha catturato la mia attenzione: la creazione d'impresa è frutto di opportunità o necessità?

Storicamente la creazione d'impresa (grazie al contributo della scuola economica austriaca) è stata vista come meccanismo legato all'equilibrio dei mercati: per Schumpeter la distruzione creatrice (la creazione d'impresa) permette al mercato di raggiungere un equilibrio provvisorio (cfr. equilibrio puntuato) che, a sua volta, sarebbe superato dalla successiva ondata di imprenditori; per Kirzner l'imprenditore, disvelando e cogliendo opportunità d'arbitraggio non sfruttate da altri, contribuisce al riequilibrio del mercato (o, per lo meno, ad una sua generale tendenza); per Lachmann è il soggettivismo dell'individuo che permette la creazione di opportunità imprenditoriali tramite la combinazione e ricombinazione continua di conoscenza e beni intermedi. Pur riflettendo tre approcci differenti, il quid scatenante l'azione imprenditoriale è la presenza o la creazione di opportunità.

Si è, dunque, imprenditori per opportunità.

E se invece la creazione d'impresa fosse una scelta obbligata e necessaria per chi, perso il proprio posto di lavoro, incontri grandi difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro?

In questa prospettiva, se vogliamo, sono implicite condizioni contestuali proprie del sistema americano, ove l'eventuale fallimento non è stigmatizzato socialmente (ma, al contrario è spesso visto di buon occhio dal mondo degli investitori - venture capital, angel e quant'altro) e ove si predilige un approccio interventivista ad uno attendista per quel che riguarda la dinamica dei mercati (in questo caso, quello del lavoro). Tuttavia è marcata la differenza delle lenti adottate per spiegare il fenomeno imprenditoriale in contesti culturali diversi.

E' lecito attendersi che questa prospettiva prenda piede in un'Italia ove il mercato del lavoro (in particolar modo per i giovani) è di difficile accesso, fonte di frustrazioni e scarse remunerazioni? Se questo può aiutare a cambiare l'approccio al mercato del lavoro dei giovani italiani (in particolare i giovani laureati) e contribuisca, così, all'innovazione e alla creazione d'impresa allora, ben venga.

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