domenica 5 aprile 2015

La forza, la pazienza, e la passione per arrivare alle stelle e cambiare il mondo

Vorrei condividere con voi una singolare quanto edificante storia d’impresa che richiama il ruolo dell’imprenditore come motore di trasformazione sociale. Il protagonista di questa storia è una ragazza statunitense di nome Wendy Kopp che a 21 anni, durante il suo percorso di laurea in scienze politiche, si mette in testa di risolvere un problema annoso del sistema scolastica americano: la disparità nell'accesso all'educazione. Vuole arrivare alle stelle e cambiare il mondo. Il suo sogno è che tutti i ragazzi americani abbiano accesso alla migliore educazione possibile, senza distinzioni di censo e privilegi.


Obiettivo oserei dire ciclopico considerato l’enorme divario che negli USA intercorre tra le scuole di qualità, appannaggio di persone benestanti, e le altre scuole. In altre parole tra quelli che hanno e quelli che non hanno. Ma non importa. Wendy decide di sviluppare nella propria tesi di laurea un progetto (un business plan) per attaccare il problema. Il progetto si basa su un’idea semplice quanto apparentemente del tutto irragionevole. Perché non chiedere agli studenti universitari più fortunati, quelli nati in famiglie abbienti che stanno studiando nelle migliori università, di dedicare due anni della propria vita all'insegnamento nelle scuole più disagiate? Ora, immaginatevi questa ragazza poco più che ventenne armata principalmente della sua determinazione che incomincia a bussare alla porta di istituzioni, organizzazioni, politici alla ricerca di un sostegno che, come racconta vividamente in questo video, arriverà solo dopo decine e decine no.



La reazione tipica che Wendy suscita è “come può stare in piedi? Come è immaginabile che i nostri laureati buttino via due anni della propria vita per insegnare in scuole e licei di periferia rinunciando alle straordinarie opportunità professionali che gli si aprono dopo l’università?”. Ma nel 1990 Wendy riesce a raccogliere le risorse minime e il progetto parte, con il nome Teach for America, sotto forma di impresa no-profit. Oggi TA conta quasi 50,000 domande all'anno da parte di neo-laureati provenienti dalle migliori università americano desiderosi di prestare la propria intelligenza e motivazione al servizio dell’educazione di ragazzi più sfortunati, perché possano realizzare il proprio potenziale al meglio. Vari studi mostrano l’impatto positivo che questo progetto sta avendo sul sistema educativo americano. Oggi Wendy Koepp che ha 45 anni e nel frattempo a ha ottenuto riconoscimenti in tutto il mondo per il suo impegno contro le disuguaglianze sta esportando il modello in altri paesi del mondo.



Traggo due considerazioni da questa storia. Prima di tutto Teach for America è una impresa che è interamente improntata al principio della condivisone come base per il perseguimento del bene comune. In questo caso è la disponibilità da parte di miglia di brillanti neo-laureati di condividere il proprio tempo, impegno ed energia a favore di ragazzi sfortunati. Una disponibilità in cui nessuno avrebbe scommesso se non fosse stato per la determinazione di una ragazza nel seguire il proprio sogno di umanità più equa. Secondo, questa storia ci mostra come una singola persona animata da giusti propositi possa attraverso l’agire imprenditoriale farsi straordinario agente di trasformazione sociale. Con le parole di Harriet TubmanRicordati sempre, tu hai la forza, la pazienza, e la passione per arrivare alle stelle e cambiare il mondo”.

giovedì 17 luglio 2014

"Nulla permane tranne il cambiamento" (Eraclito)

Se è vero, come sosteneva Eraclito, che nulla è permanente come il cambiamento, allora l’impresa che ambisce a crescere deve sapersi trasformare  e per farlo deve riuscire a mettersi in discussione, aprendosi alla novità e all'autocritica. Il problema è che l’autocritica destabilizza e dunque spaventa. Considerate i risultati di uno studio condotto dalla ricercatrice di Harvard Amy Edmonson, che ha analizzato gli errori nella somministrazione di farmaci in 8 unità ospedaliere. Sorprendentemente nel corso della ricerca la Edmonson nota che le infermiere che lavorano nelle unita con i manager e le relazioni di lavoro migliori riportano mediamente anche fino a 10 errori di più rispetto alle infermiere nelle unità che preformano peggio. Come è possibile che le unità eccellenti riportino così tanti errori? 


Dopo due mesi di osservazione partecipante in entrambe le unità la risposta diventa evidente. Le infermiere nelle unità peggiori non segnalavano errori non perché non li commettevano ma perché avevano paura di riportarli. Nelle unità migliori l’aspettativa comune era che tutti (manager e infermiere) riportassero gli errori fatti immediatamente e che ne discutessero le ragioni. Non appena diventava chiara l’origine dell’errore tutti ne venivano resi edotti. Le unità migliori avevano cioè creato un cultura in cui l’autocritica veniva vissuta come  un legittimo meccanismo di apprendimento continuo. In altre parole una cultura in cui “sbagliare è lecito e il silenzio non è sempre d’oro”. 

E’ possibile forgiare una cultura d’impresa di questo tipo senza cambiare le persone che dell'impresa fanno parte? Alcuni miei colleghi studiosi di comportamento organizzativo probabilmente risponderebbero di no. Che i manager che sono stati protagonisti di una crescita difficilmente  sono disposti a cambiare la filosofia operativa in cui hanno creduto per anni e che dunque bisogna essere pronti a scelte drastiche. Personalmente non ho una risposta. Mi piace però pensare che sia possibile iniettare degli anticorpi all'autocompiacimento che gratifica e rassicura quando le cose vanno bene e che poi però compromette la capacità di mettersi in discussione. 


Penso ad esempio a Google e alla celebre regola del 80/20 che garantisce ai dipendenti una sorta di “spazio protetto” in cui sperimentare idee. Penso anche a Facebook in cui tutti i neo assunti prima di entrare in ruolo passano un periodo intensissimo di socializzazione di 6 settimane noto come Bootcamp nel corso del quale i nuovi reclutati (sviluppatori di prodotto, ingegneri, ecc.) vengono socializzati a rotazione all'interno di vari gruppi di lavoro per brevi progetti sotto la guida di un mentore che li segue per tutto questo periodo. L’obiettivo è di contagiarli  con la "Facebook culture"  che si può sintetizzare nel celebre mantra coniato da Zuckerberg “Move fast and break things”. Muoviti, cambia le cose e non avere paura di romperle.


Ecco credo che progettare questi anticorpi e farli diventare patrimonio della cultura aziendale  sia una componente stimolante e imprescindibile della sfida  imprenditoriale perché difficilmente ci può essere crescita senza un ripensamento periodico dei propri modelli di riferimento. 

mercoledì 25 giugno 2014

Il dilemma della crescita ovvero come ringiovanire un settore maturo con un pomodoro maturo

Negli ultimi anni faccio spesso la seguente domanda ai miei studenti dell’Executive MBA: quante delle business unit in cui lavorate in questi anni di crisi hanno subito dei tagli di budget? Dopo la prima reazione di risate nervose circa l’80% alza la mano. A questo punto chiedo: quante di queste business hanno visto il budget crescere? Altra risata, ma questa volta a nessuno alza la mano. Poi dopo tipicamente chiedo: chi è responsabile dei tagli di budget? La risposta più ricorrente: la funzione finanza.


Questo quadretto illustra una trappola in cui  cascano molte organizzazioni quando il gioco si fa duro: scegliere un approccio difensivo, orientato nel migliore dei casi alla stasi e più tipicamente al taglio indifferenziato di costi. E sfortunatamente la funzione che viene preposta alle decisioni di razionalizzazione non sa cosa vogliono i clienti, non è in altre parole consapevole delle opportunità di mercato. Perché parlo di trappola? Perché se c’ un risultato ricorrente negli studi che si occupano di crescita è che a ri-partire forte quasi sempre sono le imprese che hanno avuto la fermezza/coraggio di investire in periodi di recessione. Questo non significa che la ripartenza a fronte di una situazione di crisi debba passare necessariamente attraverso una strategia aggressiva di investimento. Il punto non è questo. Il punto è che per ripartire bisogna saper cogliere delle nuove opportunità, dunque bisogna essere pronti a redistribuire le risorse, giocando simultaneamente in difesa e in attacco.  O in altre parole investendo meno (tagliano attività che non aggiungono valore) per investire di più – sostenendo attività che possono alimentare nuove opportunità.

Il problema è che perseguire nuove opportunità non è facile, perché spesso richiede una qualche forma di discontinuità con il passato,  scelte inedite e assunzione di rischio.  E come ben sappiamo le imprese non sono naturalmente predisposte  a ripensare ai propri modelli di riferimento.  Cito un caso che ho approfondito recentemente quello della Mutti SPA l’azienda di Parma che produce pomodori in scatola, passata e concentrato di pomodoro. Tra la fine degli anni 90 e il 2012 l’azienda è passata da circa 11M a 185M di fatturato. L’inizio di questa cavalcata ha corrisposto con l’ingresso di Francesco Mutti alla guida dell’azienda creata dal suo bis-nonno.
  

In un settore sostanzialmente maturo, caratterizzato da concorrenza feroce sui prezzi, schiacciato dalle etichette private label dei grandi supermercati,  Francesco (con buona dose di coraggio) ha investito,  e lo ha fatto in controtendenza rispetto all'approccio dominante. Invece che abbassare i prezzi ha puntato sulla qualità. In una industria in cui i produttori cercano di spuntare i prezzi più bassi possibili dai coltivatori Mutti ha incominciato ad offrire un premium per pomodori di qualità superiore. Ha chiesto ai coltivatori di ritardare la raccolta di 5 giorni per avere pomodori più maturi e saporiti senza dover aggiungere dolcificanti. Il premium compensa i coltivatori per il grado di rischio superiore che si assumono. Poi ha istituito un riconoscimento “Il pomodorino d’oro” per premiare i produttori migliori e celebrare la cultura della qualità. Questi momenti di celebrazione divengono inoltre  occasione per disseminare buone pratiche nel campo dell’agricoltura di precisione  e altre tecniche green. 

Questi (e altri) accorgimenti hanno permesso all'azienda non solo di crescere ma di riuscire in un obiettivo, come Francesco Mutti  ha recentemente dichiarato, in cui non credeva nessuno. Far emergere un brand da un settore altamente commoditizzato come quello della polpa di pomodoro. 



La storia di Mutti sembra confermare il vecchio adagioNon esistono settori maturi ma solo manager maturi!

venerdì 24 gennaio 2014

Business Plan: Si o No?

Il business plan…ma è veramente necessario? Si, no forse…a condizione che…Il dibattito sull'utilità del business plan per avviare un progetto imprenditoriale è sempre vivace, come si evince da questo articolo del Wall Street Journal, dove si enunciano pro e contro.

Il mio personale punto di vista è che il business plan sia indispensabile e inutile al contempo, come più volte ho avuto modo di ribadire nei miei corsi. E’ indispensabile perché disciplina il ragionamento, favorisce la condivisione fra i membri del team di un linguaggio, allinea gli obiettivi e mobilita attenzione ed energia verso il progetto imprenditoriale. Inutile perché il business plan è di per sé stesso una rappresentazione statica di un fenomeno (estremamente) dinamico e caratterizzato da forte incertezza.

Nessuno è in grado di anticipare cosa effettivamente succederà quando ci si metterà in moto nell'intento di fare impresa. Una analogia che a mio avviso rende questa idea è quella del business plan come  una teoria la cui validità può essere verificata esclusivamente attraverso la sua applicazione. In senso ancora più astratto credo sia utile pensare al business plan come ad uno  strumento che permette di articolare (possibilmente nel modo quanto più precisa e puntuale possibile) una domanda la cui riposta però non può che derivare dal confronto attivo e fattivo con il mercato.

Qualche tempo fa assieme ad due colleghi che si occupano da molti anni di business plan ho rilasciato una intervista sul tema in cui ho cercato di esplicitare meglio queste riflessioni.  Ne è derivato questo simpatico articolo, per chi volesse approfondire. Concludo con una delle massime che a mio avviso rendono meglio quella dualità del business plan a cui mi riferivo poc’anzi. Devo scomodare niente meno che il generale Esienhower:



Buona pianificazione.

giovedì 24 ottobre 2013

Crowdfunding (3): Dare, avere e l’arte di chiedere


Desidero concludere la mia piccola carrellata sul crowdfuning (post I qui, post 2 qui) con qualche personale riflessione su incentivi e motivazioni. Quali sono i meccanismi motivazionali che spingono i crowd-funders a sostenere  i progetti più disparati? Perché così tante persone appaiono desiderose di finanziare progetti creativi dalle prospetti a dir poco incerte?.


 Seguendo una pura logica di mercato una prima spiegazione che si potrebbe addurre è di tipo transazionale. Offro risorse finanziarie certe in cambio di un ritorno incerto ma con una probabilità positiva, seppure piccola, di avere un ritorno in grado di più che compensare l’esborso.  Ragionevole, sennonché un gran numero di  campagne di crowdfunding, pur raggiungendo la soglia minima di finanziamento richiesto, non offrono ai sostenitori alcun ritorno economico. Qualche volta  promettono una copia del prodotto oggetto della campagna,  talora garantiscono una menzione speciale tra i benefattori del progetto. Tipicamente non danno  alcun ritorno tangibile. Una spiegazione imperniata su una pura logica di mercato è dunque insoddisfacente e certamente non può spiegare in modo convincente il successo di piattaforme come Kickstarter o Indiegogo, dove quasi sempre ciò che viene promesso in cambio della donazione ha un valore monetario inferiore alla somma erogata.

Un utile spunto per riflettere su un meccanismo del tutto differente mi viene offerto dalla cantante e musicista Amanda Palmer, recentemente protagonista di un intenso e molto discusso Ted talk, che riporto a seguire. In questo toccante video la Palmer descrive la sua incredibile campagna di raccolta fondi su Kickstarter, conclusasi nel 2012 con un risultato 10 volte (circa) superiore alla sua richiesta originale. Il talk si intitola l’arte di chiedere ed è incentrato su un messaggio semplice quanto sfuggente. Nel momento in cui si chiede aiuto, nella fattispecie sotto forma di risorse per sostenere un progetto musicale, si gettano le basi per instaurare una relazione fiduciaria tra due persone. 

 

In effetti, come avevo sottolineato nel mio precedente post, coloro che contribuiscono alle compagne di crowdfunding sono prevalentemente persone che fanno parte della rete sociale dei proponenti, e che attraverso la piattaforma hanno la possibilità di sentirsi parte di un progetto condiviso.  La piattaforma diviene cioè il veicolo attraverso cui le persone possono aggregarsi dando vita a piccole comunità di supporto amalgamate da un condiviso “slancio al dare” (senza certezze né particolari aspettative su ritorni tangibili ma con la certezza di aver dato uno mano).

Il punto a mio avviso centrale è che i finanziatori di Kikckstarter, così come avviene per altre piattaforme analoghe, non sono investitori nel senso tradizionale del termine e non sono alla ricerca di  opportunità per massimizzare il ritorno degli investimenti. La logica che ispira le loro scelte non è infatti quella monetaria di mercato, ma quella del dono. Nel libro The Gift, ispirato al concetto di economia del dono, Lewis Hyde descrive la relazione tra l’economia di mercato e la tensione verso il prossimo che caratterizza il gesto del donare. Hyde si concentra in modo particolare sugli artisti, suggerendo che ogni creazione artistica è spinta primariamente da un sentimento altruistico. Anche se un progetto creativo è quindi oggetto di una transazione, le forze che lo generano sono ispirate dal desiderio di condividere qualcosa con il mondo, non dal mercato.

Ecco, questo desiderio di condivisione e partecipazione al contempo credo sia la ragione più profonda dell’ascesa del crowdfunding e in un certo senso il sentimento che ispira il rapporto osmotico tra chiedere e dare su cui si basa la sopravvivenza di ogni comunità.

Sarebbe una grande calamità per il mondo – scriveva Henry Miller  nelle sue celebri riflessioni sull’interdipendenza tra dare e avere – se eliminassimo il mendicante. Il mendicante nello schema delle cose è tanto importante quanto colui che dona. Dio ce ne scampi se il mendicare dovesse  sparire e non ci fosse più bisogno di rivolgersi ad altri essere umani per chiedere qualcosa e dare così  loro la possibilità di condividere la propria ricchezza”.

venerdì 13 settembre 2013

Crowdfunding Italia

E’ con orgoglio che possiamo dire che l’Italia presto sarà il primo paese in Europa ad avere un regolamento per l’equity crowdfunding”, Giuseppe D’Agostino, vice-direttore CONSOB

Il crowdfunding in Italia sta prendendo piede. Rapidamente. Così rapidamente che una volta tanto siamo leader internazionali e non follower. A partire da fine luglio infatti la Consob  ha introdotto una normativa organica a regolamentazione del crowdfunding basato su equity, ovvero generativo di quote societarie a corrispettivo delle risorse elargite. L’intervento di Consob per ora è ristretto alle start-up a carattere innovativo: ma lo strumento giuridico è stato varato, ed è possibile che venga esteso ad altre tipologie. Non mi soffermo sui dettagli del regolamento, le cui specificità sono peraltro efficacemente commentate in questo articolo

Desidero invece soffermarmi su alcuni numeri che aiutano a dimensionare l’entità e la diffusione di questo strumento in Italia. L’occasione mi è offerta dalla recente pubblicazione di una ricerca condotta a cura dell’Università Cattolica di Milano, che ha provato a radiografare il fenomeno e da cui ho estratto qualche grafico (rinvio allo studio per tutti i dettagli). Ne emergono alcuni dati significativi. A partire dal numero di piattaforme. Complessivamente 21 alla data di Marzo 2013, suddivise nelle 4 tipologie classiche di crowdfunding: 1) la donazione: il finanziamento ha natura di liberalità; 2) il prestito personale (social lending): si tratta di un finanziamento fruttifero di interessi, anche se solitamente molto calmierati rispetto a quelli di mercato; 3) il crowdfunding reward-based: il finanziamento garantisce un riconoscimento materiale (ad esempio il prototipo del prodotto scaturito dal progetto finanziato, etc.) o simbolico (ad es. l’indicazione in bella vista del nome del donatore nel sito dei proponenti, etc.); 4) e infine il crowdfunding equity-based: il finanziamento è un contributo al capitale sociale e dunque si ha diritto a una quota di equity dell’impresa  (è in quest’ultima tipologia che l’Italia, attraverso la recente regolamentazione Consob,  si pone all’avanguardia, almeno da un punto di vista squisitamente normativo). 

Come suggerito dal grafico qui sotto riportato le piattaforme reward-based sono quelle di gran lunga più diffuse, anche se per effetto della regolamentazione è immaginabile una accelerazione da parte di quelle equity based. 


La prima piattaforma italiana definibile come crowdfuning è produzionidal basso, un modello reward-based creato nel 2005. Ma è soprattutto nel corso dell’ultimo anno che si assiste all'esplosione del fenomeno. Con ben 7 piattaforme lanciate nei primi 8 mesi del 2013. La progressione nel tempo di alcune delle piattaforme più significative è riportata a seguire.

Ma è il dato sul capitale raccolto quello che forse attira di più l’attenzione. Complessivamente i progetti finanziati hanno attratto oltre 13 milioni, in gran parte generati da piattaforme di tipo “social lending”, dunque basate su prestito.  La tabella a seguire riporta il valore totale dei progetti pubblicati e successivamente finanziati diviso per modelli di crowdfunding.


 Si tratta complessivamente di circa 3000 progetti finanziati su un totale di circa 9000 progetti pubblicati sulle piattaforme. Pur trattandosi di operazioni mediamente di piccolo cabotaggio, che vanno dai 2 ai 4 mila euro di raccolta media (a seconda della tipologia di piattaforma) questi numeri segnalano che il fenomeno è vitale e indubbiamente in ascesa. Cosa c'è alla base di questo fenomeno? Ne parleremo prossimamente. 

venerdì 21 giugno 2013

Crowdfunding, uno spazio sempre più crowded

Il crowdfunding, ovvero la raccolta di capitale attraverso piattaforme online accessibili a chiunque voglia scommettere su un dato progetto/prodotto/servizio, è oggi un’opzione sempre più credibile e diffusa per racimolare risorse. Nel 2012 secondo la fondazione Kauffman la raccolta complessiva veicolata da piattaforme di crowdfunding è stata pari a $2.8 bilioni worldwide, quasi il doppio rispetto al 2011. 


Secondo Forbes tali piattaforme sono oggi oltre 700. E' notizia di pochi giorni fa che su Kickstarter (la piattaforma di crowdfunding più nota e popolare al mondo) il progetto Pebble Watch (un orologio in comunicazione con l'iPhone) ha chiuso una raccolta record di oltre 10 milioni di dollari, erogati da circa 69000 sostenitori. E’ indubbio che si tratti di uno strumento rilevante per la finanza imprenditoriale, sempre più legittimato e impattante, come suggerito dall'entità di capitale raccolto su Kickstarter dai progetti di maggior successo.  


Dato l’impatto e l’ascesa del fenomeno ho pensato di  dedicare alcune riflessioni al tema. Ho individuato tre domande a cui cercherò di rispondere in altrettanti post:
1)      Come si si fa ad avere successo nella raccolta attraverso crowfunding?
2)      Cosa sta succedendo in Italia?
3)      Perché il crowfunding funziona? 

Come si si fa ad avere successo nella raccolta attraverso crowfunding?
Un recente studio (scaricabile qui) condotto presso la Wharton School della University of Pennsylvania ha cercato di rispondere a questo interrogativo analizzando circa 47000 progetti postati su Kickstarter  per un ammontare complessivo di capitale raccolto pari a $198.000.000. In sintesi questi sono i principali risultati dell’indagine:
1.      Maggiore è il social network del fondatore più è probabile che il progetto venga finanziato. Un ampia rete di contatti rende il progetto più visibile e dunque è più verosimile che solletichi interesse e curiosità di qualcuno disposto a dare un contributo finanziario. L’estensione del social network è in realtà anche un indicatore del grado di attivismo sociale del proponente, ovvero della sua capacità di mobilitare persone e interesse.
2.      I progetti che vengono presentati con grande ricchezza di dettagli e forte attenzione agli aspetti formali (espositivi e grafici) hanno probabilità molto più alta di essere finanziati. Un fattore decisivo è la disponibilità di un video illustrativo a supporto del progetto
3.      L’effetto cluster conta. Progetti con connotazione territoriale riesco ad aggregare più facilmente risorse nelle are geografiche di riferimento del progetto (si veda il grafico sotto) Inoltre la probabilità di successo è tanto più alta quanto maggiore è la densità di professionisti delle industrie creative operanti nella città sede del progetto.
4.      Progetti con visibilità nella home page di Kickstarter hanno una probabilità di successo altissima (89% contro il 20% di quelli non segnalati).


 Distribuzione dei progetti presentati a Kickstarter per area geografica e successo conseguito




Il grafico qui sopra mostra la distribuzione dei progetti postati su Kickstarter per città. I cerchi sono proporzionali al nr di progetti presentati in quella città e il colore scuro indica la proporzione di progetti finanziati quelli in verde chiaro sono i progetti non finanziati. Maggiore la coerenza tra natura del progetto e specializzazione territoriale della città più alta la probabilità di successo (effetto cluster). 


E l'Italia? Per una volta non segue ma detta la rotta.  E' infatti uno dei primi paesi al mondo (ebbene si, anche prima degli USA!) che sta per rendere esecutiva una legislazione ad hoc per regolamentare il crowdfunding basato su equity. Ne parleremo tra breve. 

domenica 28 aprile 2013

Da dove vengono gli imprenditori? (parte II)


Riprendo oggi le riflessioni avviate nel precedente post circa l’origine degli imprenditori. Avevo sottolineato in quell'occasione come le imprese facciano spesso da albero genealogico, gemmando imprenditori che si forgiano in un ambiente per così dire “protetto” prima di lanciarsi sul mercato. Ovviamente esiste una casistica altrettanto ampia di imprenditori senza alcuna precedente esperienza professionale. Tuttavia anche in questi casi spesso si scoprono alcuni tratti comuni nei percorsi di approdo all'imprenditorialità  Ad esempio l’essere cresciuti in una cultura imprenditoriale. Diversi studi suggeriscono infatti che individui i cui genitori, amici stetti o vicini sono imprenditori o sono impegnati in forme di auto-impiego, hanno maggior probabilità di scegliere a loro volta una strada imprenditoriale. Ci sono poi dei luoghi che possono esercitare precocemente un influsso imprenditoriale su chi li frequenta. Ritornando allo studi sopra citato sull'origine della Packaging Valley emiliana, si scopre ad esempio che la maggioranza dei pionieri del distretto si formarono presso la stessa scuola, le Aldini Valeriani, un istituto tecnico industriale dove storicamente si enfatizzano forme di apprendimento incentrate sulla sperimentazione, il trasferimento diretto di competenze e il fare (vedi tabella sotto).


Mi chiedo quale consapevolezza esista oggi circa il fondamentale ruolo che le scuole possono svolgere nell'instillare imprenditorialità sin da giovane età. 

lunedì 1 aprile 2013

Da dove vengono gli imprenditori? (parte I)


Vi siete mai chiesti da dove vengano gli imprenditori? Esiste un percorso ideale per diventare imprenditori? Quali itinerari formativi contraddistinguano una carriera imprenditoriale? Queste domande non hanno una risposta univoca tuttavia la ricerca ha evidenziato alcune regolarità. La più forte è che gli imprenditori sono originati dagli imprenditori. Con questo intendo dire che le imprese sono i migliori contesti in cui imparare a fare imprese. E’ per effetto di esperienze pregresse in tali ambiti che si impara il mestiere, si sviluppano competenze, relazioni, contatti e percezioni precise sui bisogni di mercato e sui gap non ancora colmanti. In uno dei primi e più citati studi in materia, ad opera di Amar Bhide, apprendiamo ad esempio che un buon 71% di imprenditori ha sviluppato l’idea di impresa durante precedenti esperienze professionali, come riportato nel grafico a seguire.


Ci sono poi alcune imprese che, per caratteristiche culturali,  ma anche tecnologiche e organizzative, più di altre sono capaci di incubare imprenditori. Un celebre caso nell’ambito del biotech è quello dell’americana Baxter. Come documentato nell'interessante libro di Monica Higging “Career Imprints”, la Baxter sin dal 1970 implementò un politica di gestione delle risorse umane che prevedeva l’assegnazione ai dipendenti più motivati e ad alto potenziale di incarichi di mini-CEO che conferivano forti responsabilità permettendo ai prescelti di sviluppare competenze, relazioni e sicurezza in sé stessi.  L’impatto imprenditoriale di questa policy fu straordinario, al punto che circa un quarto di tutte le startup biotech che si quotarono tra il  1979 e il 1996 avevano almeno un team member che aveva lavorato alla Baxter. Viceversa, l’orientamento molto più specialistico e funzionale di Abbot Labs, ancora oggi uno dei principali concorrenti  della Baxter, inibì la propensione imprenditoriale dei suoi dipendenti che in rarissimi casi fondarono proprie imprese. 

Casi analoghi più vicino a noi sono ad esempio quello di Acorn Computer, impresa pionieristica inglese, oggi non più operante, specializzata nel campo dei personal computer che nel corso degli anni 80 formò vere e proprie legioni di dipendenti-imprenditori, come illustrato nel grafico qui sotto. Recentemente si è quantificato in circa 30 il numero di imprese tecnologiche direttamente riconducibili a dipendenti di Acorn!



L'analisi della genesi della Packaging Valley emiliano romagnola è analogamente sorprendente. Ricostruendo i percorsi di provenienza degli imprenditori che hanno creato il distretto di aziende del packaging più importante al mondo si scopre infatti che alcune imprese sono state delle vere  e proprie fucine di imprenditorialità. 

                            Lorenzoni, G.(1998)Dove studiano gli imprenditori, Economia&Management, 6.

Come si nota nella figura sopra, tratta da uno studio del mio collega Gianni Lorenzoni, imprese come la GD o l’ACMA hanno innestato un sorta di effetto domino gemmando da sole decine di imprese, alcune delle quali poi diventate player internazionali di primo piano. Fare esperienza d’impresa dunque aiuta, ma non è ovviamente l’unico modo. Ne parleremo nel prossimo post. ...Stay tuned. 

lunedì 7 gennaio 2013

L'imprenditoria femminile (parte III)

Innanzitutto buon anno e buona Epifania! Apriamo il 2013 chiudendo il thread di post (post I qui; post II qui) curati da Lucia Ragazzi sul tema dell'imprenditoria femminile. In questo terzo e ultimo post Lucia ci presenta una interessante intervista con Sara Roversi, giovane ed energetica imprenditrice bolognese recentemente premiata da Unindustria per i suoi numerosi successi professionali, tra cui la creazione di Sosushi, la catena di ristorazione giapponese più diffusa in Italia.

Quattro chiacchiere con Sara Roversi
Sara Roversi, nata a Bologna nel Marzo del 1980, sposata e madre di due bambini, ad oggi è una delle imprenditrici seriali più giovani nel panorama dell'imprenditoria nazionale.


Quale è stato il suo percorso scolastico?
Mi sono laureata alla European School of Economics di Londra, università innovativa per l’epoca, con una componente filosofica molto forte che ha segnato profondamente il mio percorso imprenditoriale. Successivamente mi sono trasferita per un anno circa a New York dove ho potuto, grazie allo studio e ad un internship, consolidare la mia preparazione.

Quanto ha influito l’esperienza newyorchese sulla sua vita da imprenditrice?
È stata fondamentale. Di ritorno da New York, insieme al mio compagno Andrea Magelli abbiamo dato vita alla nostra prima impresa, Lifeinaclick, un progetto innovativo che si occupa di emotional marketing. Successivamente sempre con lui, che mi affianca in ogni mia attività, abbiamo creato Sosushi Italia Srl. Sosushi è l’attività che risente maggiormente dell’esperienza americana; l’idea è nata dall’attrazione per i take away di sushi incontrati lungo le strade della metropoli, abbiamo voluto portare in Italia qualcosa di nuovo, che ci piaceva e sul quale avevamo una forte convinzione circa l’esportabilità. Ad oggi Sosushi è la più diffusa e conosciuta catena in franchising di ristorazione giapponese sul territorio nazionale, direi che il coraggio di provare e lanciarsi con questa idea è stato pienamente premiato.

Nel corso del tempo avete dato vita anche ad altre attività, come nascono tutte queste idee?
Sì, nel corso degli anni sono nate You Can Srl, ad oggi partner ufficiale e unico rivenditore europeo dei prodotti Molo Design, Masabi Srl e infine You Can Group Srl, punto di incontro per tutte le realtà costruite negli anni. Recentemente abbiamo dato vita anche a Soul Factory, sorta nel cuore del Despina Business Park come innovativo concept di ristorazione collettiva dove il break diventa un momento di rigenerazione e arricchimento per corpo e mente. Ma sono tante anche le idee che abbiamo che che vorremmo sviluppare. Tutte nascono grazie alla continua ricerca del nuovo, di qualcosa di unico, ma anche pensando a quali sono le lacune presenti nel nostro territorio per poterle poi arginare. Faccio un esempio... nel corso degli ultimi anni il numero di turisti che passano per Bologna è notevolmente aumentato, anche grazie alla compagnia aerea Ryanair che fa scalo presso l’aeroporto cittadino. Quello che ci siamo chiesti era “Come valorizzare al meglio la città?”, sì ci sono i negozi che si occupano di merchandising, vendono cartoline e altri ricordi della città, ma sono tutte cose ormai obsolete, per questo abbiamo pensato di investire su un nuovo progetto che rilanciasse le eccellenze bolognesi. E cosa se non il cibo? Da qui è nato il Bologna food boutique, da qualche tempo  presente nel  centro della città. Esso rappresenta un nuovo concept di ristorazione, un locale capace di vivere la più frenetica o tranquilla pausa pranzo in compagnia di bolognesi doc e turisti provenienti da ogni parte del mondo, ed arrivare fino al tardo pomeriggio per regalare ai suoi clienti un tramonto che sa di lambrusco, un aperitivo che se è necessario parla dialetto e s’intende di sapori locali e genuini.

Di cosa ti occupi all'interno dell’impresa?
Principalmente di grafica, immagine e comunicazione ma in realtà un po’ di tutto, tranne il lato economico di cui si occupa mio marito Andrea. Entrambi ci occupiamo della ricerca e sviluppo, portando sempre nuove idee da sviluppare insieme al nostro team composto da una ventina di persone di culture e paesi diversi ma tutti under 35.

Quali sono i punti di forza e di debolezza di tutte queste attività?
I punti di forza direi: la grande innovazione, tutti i progetti sono unici, non ci sono competitor, uno staff giovane e multietnico, e sicuramente il learning by doing.
Tra quelli di debolezza ne sottolineerei uno in particolare, la mancanza di un business plan iniziale, di una pianificazione finanziaria che porta in alcuni casi a dover rivedere le proprie attività nel corso del tempo con conseguente duplicazione di costi e perdita di tempo.
Infine c’è un elemento che considererei sia come punto di forza ma anche come punto di debolezza: l’ incoscienza. L’incoscienza che porta a lanciarsi sempre in nuove sfide che possono tramutarsi in successi, e allora è un punto di forza, ma che possono portare anche ad errori o fallimenti e allora è una debolezza.

Quali sono le caratteristiche ideali che una buona imprenditrice dovrebbe avere? 
Sicuramente la passione e il coinvolgimento totale ( avere una propria attività implica dedicarsi ad essa 24 ore su 24 sette giorni su sette),  ma anche il divertimento, essere sempre pronti a cogliere nuove opportunità, nuove sfide senza aver paura di sbagliare.

Se dovessi definirti con due aggettivi come ti definiresti?
Entusiasta e creativa.

Obiettivi futuri?
Dall'esperienza nella creazione di format di ristorazione e del mondo delle start up e degli incubatori, nasce l’idea di  creare un Kitchen Incubator. Il primo a Bologna un secondo a Milano, avranno lo scopo di incubare al proprio interno tutti quei progetti “food based”, ossia tutti quei progetti volti alla creazione di nuovi food format, come Sosushi, ma anche applicazioni per il mondo food ( applicazioni per ipad, smartphone) che mettano in relazione non solo impresa e cliente ma anche impresa e fornitore, dedicate quindi al mondo B2B, food retail, etc. A differenza di altri incubatori simili, presenti solo negli Stati Uniti, in questo kitchen incubator lo scopo non è semplicemente avviare un proprio ristorante ma costruire una grande impresa, avviare catene di locali, franchising, standardizzando i processi.  Di prossima realizzazione, anche, un concept dedicato a due piatti della tradizione, lasagne e polpette, con l’obiettivo di un volo oltreoceano che faccia incontrare due elementi forti della tradizione italiana con uno stile di vita americano, contemporaneo e multietnico.